INDICE

CONTRIBUTI

Introduzione

Il presente: la Visione. Il passato: la Mostra. Il futuro: l’Archivio

 

Maggio 2021 / Paola Monasterolo e Silvia Lombardi
Fondazione della Comunità di Mirafiori onlus

«Il progetto “Mirafiori dopo il Mito” nasce dall’idea di andare a vedere che cosa lascia dietro di sé l’onda lunga della produzione di massa della grande fabbrica fordista. Io credo che nessuno abbia scavato bene dentro a questi luoghi, per capire che cosa siano diventati, che cosa c’è dentro all’immagine di Mirafiori epicentro industriale del Paese di un tempo. Quale società, quale ambiente, quali comportamenti?»

Giuseppe Berta, storico e professore di Storia dell’Industria all’Università Bocconi, coordinatore scientifico di “Mirafiori dopo il Mito”.

«Il miracolo di una storia che continua a dispetto della storia, perché non possiamo vivere soltanto di cose importanti, gloriose, drammatiche, però osservare come la storia e la vita continuano è straordinario. Questa è una cosa unica ai margini di una città, dove finisce la città, ma la città arriva qua, non finisce qua, la città è viva, qua. Quindi per parlare di Torino bisogna anche parlare di Mirafiori, e non perché non ci siano altre cose, e non solo per il nome, ma perché qui c’è una quota consistente di umanità, di persone, molto varie e molto diverse che sono vive, lavorano, producono e trasmetteranno questa vita.»

Bruno Manghi, sociologo, Presidente della Fondazione della Comunità di Mirafiori. 

Qual è l’identità di Mirafiori oggi, chi sono i suoi abitanti e in quale eredità agiscono quotidianamente?

 

“Mirafiori dopo il Mito” dà voce all’indagine, che ha coinvolto tutti gli abitanti, gli studenti, le realtà produttive presenti e meno conosciute, su cosa rappresenta oggi Mirafiori: come vivono i suoi abitanti, quali sono i modi di fruire il territorio, quali sono gli indicatori economici e sociali, quali i ricordi legati al cambiamento del quartiere e quali le prospettive. 

Emerge l’immagine di un quartiere oggi focalizzato alla rigenerazione e alla trasformazione, attraverso la tecnologia, lo sviluppo di una nuova coscienza green, la ricerca, la moltitudine di realtà aggregative e la vivacità delle forme di socialità che rendono vitale e unica questa area della città.

“Mirafiori dopo il Mito” racconta «il miracolo di una storia che continua a dispetto della storia». La trama che lega l’assetto della Mirafiori di ieri e quella di oggi, quartiere dal nome evocativo di una storia industriale nota, emblematico paradigma di una transizione urbana analoga a quella di altri centri industriali nel mondo, ha come veri protagonisti gli abitanti che quotidianamente tessono i mutamenti.

 

Come sopravvive un luogo (umano) a prescindere dall’esistenza di ciò che lo ha generato?

 

La ricerca restituisce una fotografia di come il quartiere ha reagito alla deindustrializzazione e al cambiamento. 
Il processo di deindustrializzazione ha lasciato spazio ad altri episodi e con tale ricerca si intende raccontarli al fine di:
– investire sullo sviluppo della coscienza di luogo (recuperando la storia e l’identità del quartiere e lavorando sul radicamento)
– stimolare la riappropriazione della nostra vita in forma collettiva.

La trama che lega l’assetto della Mirafiori di ieri e quella di oggi, quartiere dal nome evocativo di una storia industriale nota, emblematico paradigma di una transizione urbana analoga a quella di altri centri industriali nel mondo, ha come veri protagonisti gli abitanti che quotidianamente tessono i mutamenti.
2 anni di ricerche in campo sociologico, architettonico, archivistico e attività di Living Lab, esposte in 8 sezioni all’interno della mostra al Polo del ‘900 di Torino dall’11 al 25 ottobre 2019:  “Mirafiori dopo il Mito” ha portato nel centro di Torino un capitolo del racconto della città.

Approfondisci le sezioni della mostra al Polo 900: https://mirafioridopoilmito.it/in-mostra/

 

Alcuni numeri di “Mirafiori dopo il Mito”:

8 sezioni con linguaggi artistici e scientifici
1 videoclip del brano “Dopo il Mito…ci sei tu”
2 mappe di comunità illustrate sull’idea di futuro dei bambini in “Mirafiori oggi e domani”
5 tipologie abitative in pannelli
9 abitanti intervistati nei video di Andrea Serafini, Yepp Italia
10 infografiche con dati di indicatori sociali fondanti
12 realtà produttive fotografate da Andrea Borgarello
13 luoghi narrati in microracconti video attivabili on demand dal plastico del quartiere
110 bambini e ragazzi coinvolti
5000 scatti realizzati nel Living Lab di fotografia partecipativa
4 oggetti in esposizione di realtà produttive
1 workshop di fotografia per i migliori fotografi che hanno partecipato al Living Lab di fotografia partecipativa
15 giorni di esposizione al Polo del 900 di Torino, 2019

 

#MirafioridopoilMito al Polo del ‘900

2 settimane di apertura al pubblico
più di 1.500 visitatori
13 realtà e artisti coinvolti
40 soggetti raccontati
1200 fotografie di abitanti esposte
3 tavole rotonde
4 visite guidate aperte al pubblico
7 visite guidate realizzate per studenti

Paola Monesterolo Coordinatrice della mostra “Mirafiori dopo il Mito”. Lavora in Fondazione della Comunità di Mirafiori dal 2011. Laureata in Architettura al Politecnico di Torino e in Arti Visive allo IUAV di Venezia, la sua tesi di laurea “Art à guérir: Garutti, Schneider, Kosuth, Pomodoro, Morris, Parmiggiani, Pirri, Pistoletto, Spalletti. Nove artisti si confrontano con lo spazio medico” è stata selezionata come finalista al Premio PARC MAXXI per la storia e la critica dell’arte italiana contemporanea. Alla propria ricerca artistica unisce l’esperienza maturata nell’ideazione e realizzazione di libri, materiale grafico per la stampa, così come in prodotti di illustrazione. Ha partecipato al progetto SITUA.TO ideato e curato da a.titolo e Maurizio Cilli.
Silvia Lombardi Ufficio stampa e social media manager per Fondazione della Comunità di Mirafiori dal 2020, ha iniziato la sua collaborazione con Fondazione con l’incarico nell’ottobre 2019 per l’ufficio stampa della mostra “Mirafiori dopo il Mito”.
Laureata in Antropologia della Performance all’Università di Bologna, dopo anni nella comunicazione e organizzazione teatrale in alcuni teatri del capoluogo emiliano, a Torino ha iniziato a collaborare in progetti di rigenerazione urbana, impegno sociale e marketing territoriale, partendo proprio da Mirafiori.

Ripensare industria e lavoro: un programma in progress della Fondazione 1563

 

11 Giugno 2021 /  Piero Gastaldo, presidente Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura

La Fondazione 1563 impegna una consistente parte della propria attività nel campo della ricerca e della valorizzazione storica e culturale di Torino e del Piemonte. È per questo che, accanto ai programmi di ricerca su Global history e Barocco legati al mondo accademico nazionale e internazionale e dedicati al sostegno dei ricercatori umanistici, ha accolto il mandato della Fondazione Compagnia di San Paolo di sviluppo progettuale sul tema del ripensamento sulla storia dell’impresa e del lavoro.

 

Si richiedeva dunque una riflessione e un progetto sulla vocazione industriale passata, presente e futura del territorio piemontese e ligure, sul mondo del lavoro con i propri radicali e velocissimi cambiamenti legati alla transizione digitale e resi ancor più evidenti dalla recente pandemia Covid 19, sulla società nella sua evoluzione storica e contemporanea, sugli assetti urbanistici e territoriali, sui legami nazionali e internazionali.

La Fondazione 1563 ha dunque inserito nel proprio Piano Pluriennale 2019-2021 l’ipotesi di valorizzazione e divulgazione del patrimonio culturale alla base della storia industriale e tecnologica del Piemonte, della Liguria e della Valle d’Aosta. 

Per sviluppare il progetto, convenzionalmente definito “MLI – Memoria del Lavoro e dell’Industria nel Nord Ovest” nel 2018 la Fondazione ha commissionato uno studio preliminare, curato da Guido Guerzoni, Sergio Toffetti e Luca Rolandi con il coordinamento di Walter Barberis, che ipotizzava nella progettazione scientifica e nell’analisi comparativa la creazione di uno spazio fisico museale. Il successivo dibattito sul progetto che ha coinvolto studiosi ed esperti dei temi, il momento storico di crisi economica, poi aggravata dalla pandemia Covid 19 e la forte conversione delle risorse della Compagnia verso attività sociali, ha costituito le fondate ragioni per indirizzare la Compagnia e la Fondazione 1563 a spostare l’obiettivo non già verso la costituzione di uno spazio espositivo reale, ma verso la costruzione di un Hub digitale, un portale/museo, un centro di interpretazione dove, da una parte fornire la rappresentazione della storia dell’industria e del lavoro del Novecento, dall’altra mettere in rete i soggetti territoriali, archivi di impresa, musei, biblioteche, associazioni di categoria e stakeholders, in un percorso di valorizzazione e rappresentazione delle realtà territoriali, ma anche di informazione e formazione per le giovani generazioni e di riflessione attiva sul tema delle nuove professioni. 

Si tratta di un programma ambizioso perché riferito a ragioni importanti, dove la scelta è quella di valorizzare in forma digitale un patrimonio vastissimo, di cui sono depositarie istituzioni da mettere in rete, accompagnata però da un progetto narrativo ben strutturato a livello scientifico e corredato da una capillare ricerca di documenti, items fotografici e video accompagnati da un coordinamento grafico e editoriale che conduca ad una rappresentazione virtuale intuitiva, accattivante e partecipativa, anche  variabile e declinabile nei contenuti e nella proposte, con auspicabili attività fisiche – mostre, festival, seminari, convegni, percorsi – che potranno servire da raccordo. 

Nelle intenzioni della Fondazione 1563, il MLI dovrà essere un luogo virtuale di rappresentazione con possibili letture a diversi livelli, dal più divulgativo a quello specialistico, un portale web a cui sia possibile rivolgersi sia per ottenere un’informazione corretta sul processo di industrializzazione e sulla sua successiva trasformazione, sia per condurre ricerche più particolareggiate e analitiche, che riguardino singole vicende di imprese, unità produttive, città, aree di insediamento, biografie e famiglie imprenditoriali, valorizzazione di distretti territoriali, marchi storici, per arrivare ai contemporanei progetti aziendali di brand heritage. 

Da questo punto di vista, l’hub o centro di interpretazione prefigurato, deve fungere da soggetto attivatore e organizzatore di energie locali che altrimenti, pulviscolari, potrebbero non acquistare il giusto rilievo culturale né, probabilmente, la dovuta continuità di azione.

Il MLI potrebbe diventare il luogo dell’esplorazione, documentazione e discussione dello spazio economico, culturale, organizzativo, politico della produzione industriale in epoca post-industriale.

Durante il percorso di riflessione condotto dalla Fondazione 1563 sul progetto MLI sono diventati elementi importanti lo studio, la condivisione e le relazioni collaborative condotte con numerosi enti territoriali.

Uno tra i primi è la Fondazione della Comunità di Mirafiori onlus, nata nel 2008 con la partecipazione della Compagnia di San Paolo e l’associazione Miravolante, a seguito del progetto del quartiere Mirafiori di rigenerazione urbana e sociale conseguente il processo di deindustrializzazione cittadino.

In un’ottica di partnership la Fondazione 1563 ha con interesse e entusiasmo accompagnato il progetto di comunicazione e valorizzazione  intitolato “Mirafiori dopo il Mito”, coordinato da Giuseppe Berta, Bruno Manghi e Paola Monasterolo, con la partecipazione alla realizzazione del presente catalogo che raccoglie il lungo periodo di attività e esperienze di trasformazione fisica e sociale di Mirafiori dopo lo spostamento delle produzioni dell’automotive, e ha altresì sostenuto la produzione del documentario sul quartiere, intitolato “Primavera a Mirafiori” di Andrea Serafini e Associazione Labins. Da esperienze come quella di Mirafiori il progetto MLI potrà continuare ad accogliere ispirazione e suggestioni per il suo percorso.

Mirafiori prima di Mirafiori

 

30 Maggio 2021 / Rita Cararo – Kallipolis

Tra tutti i quartieri di Torino, Mirafiori sud è quello che più di altri ha influenzato, in due eventi fondamentali, la storia, la struttura e l’urbanistica della città.

Il primo evento si colloca alla fine del 1500. Il Duca Carlo Emanuele I sposa l’infanta di Spagna Caterina Micaela d’Asburgo, figlia di Filippo II, e per lei fa erigere la “delizia” di Miraflores che da questo momento in poi darà il nome all’intera area circostante.

Quando Vitozzi, al servizio del Duca Carlo Emanuele I, avvia il progetto di ristrutturazione urbanistica crea una bipolarità tra il livello urbano (il palazzo ducale) e quello territoriale (Miraflores). 

A questo proposito, in una patente ducale del 1587 si trova: “havendo noi risolto di far una nuova strada per la quale si vedi dritto da questo nostro palazzo a Miraflores et a tale effetto far romper la muraglia di questa città et fabricarvi una Porta Nuova”, decretando quindi nel programma urbanistico l’espansione a sud della città verso la residenza ducale extraurbana di Mirafiori e aprendo così una nuova arteria “[che] divenne l’asse principale della storia urbanistica di Torino”. 

Il secondo evento avviene diversi secoli dopo, ad inizio del XX secolo.

Mirafiori sud in quel momento ha una florida economia legata alla presenza dell’ippodromo che sorge a est di corso Unione Sovietica, in corrispondenza dell’ingresso dello stabilimento della FIAT in corso Agnelli 200.

Le competizioni ippiche si svolgono dal 1898, anno di inaugurazione, fino al 1960, quando sarà trasferito a Vinovo. L’ippodromo ospita le gare, è una passerella di moda e nelle aree limitrofe ci sono allevamenti e scuderie, tra cui quelle di Riccardo Gualino che sorgono dove ora c’è la palazzina degli impiegati. 

Il 19 gennaio 1931 al questore di Torino arriva il telegramma che recita: ”Gualino: fermatelo. Mussolini” e da questo momento le scuderie, con gran parte dei beni e le proprietà dell’imprenditore come SNIA, UNICA, FIP, CINZANO, FLORIO, SALPA sono messi sotto sequestro e pignorati e lui mandato al confino per cinque anni sull’isola di Lipari. A gestire la liquidazione dei beni di Gualino è nominato l’avvocato Giovanni Vitelli, stretto collaboratore dell’Avvocato Agnelli; qualche anno dopo, su quei terreni e nell’area circostante compare lo stabilimento FIAT e, a partire dal secondo dopoguerra, ha inizio per Torino la fase di espansione che ha modificato radicalmente la composizione sociale e urbanistica del quartiere e dell’intera città.

Rita Cararo Presidente e membro del consiglio direttivo dell’ass. Kallipolis. Tra i soci fondatori, è architetto e urban planner con specializzazione nei paesi in via di sviluppo e in transizione. Ha un’esperienza decennale nell’ambito della progettazione partecipata e del community building, sia in Italia che all’estero.

DETROIT.

Viaggio nella città degli estremi

(ed. Il Mulino, 2019)

 

 

22 ottobre 2019 / di Giuseppe Berta in dialogo con Piero Gastaldo e Umberto La Rocca.

«Il libro di Giuseppe Berta Detroit, viaggio nella città degli estremi è un tondino di ferro di letteratura della metamorfosi industriale. Da consigliare ai millennial come romanzo di formazione per loro, sospesi tra il non più del fordismo e il non ancora delle auto a guida autonoma.»

Aldo Bonomi, Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2019 – recensione di “DETROIT”

La presentazione del libro di Giuseppe Berta dedicato a Detroit ha avuto luogo il 22 ottobre 2019 al Polo del ‘900: il professore e storico, curatore scientifico di “Mirafiori dopo il Mito”, in dialogo non solo  con due esperti della situazione socio-economica di Torino, ma soprattutto due amici, Piero Gastaldo, presidente di Fondazione 1563, e il giornalista Umberto La Rocca.

Un piacevole confronto, un’analisi della situazione del settore automotive e del suo futuro “imperscrutabile”, in cui Detroit è un esempio di ciò che è accaduto e sta accadendo a Torino.

Guarda il video integrale della presentazione del libro di Giuseppe Berta

Quale futuro per Mirafiori?

11 Maggio 2021 / Bruno Manghi, presidente di Fondazione della Comunità di Mirafiori,in dialogo con Rita Cararo, Kallipolis.

Vivere a Mirafiori. Un dialogo sull’Abitare

I modi dell’abitare: come è cambiata la struttura abitativa e demografica?

 

20 Aprile 2021 / Intervista doppia con Federico Guiati e Filippo De Pieri

1. Come descriveresti il cambiamento dell’abitare a Mirafiori dagli anni ‘50 ad oggi in 3 concetti?

 

FEDERICO GUIATI  Mi vengono in mente tre concetti corrispondenti a tre dinamiche differenti che si sviluppano a partire dagli anni Cinquanta fino ad oggi.

Colonizzazione e Pionerismo

I primi decenni dell’abitare a Mirafiori li definirei quelli della Colonizzazione e del Pionerismo, ovvero un territorio “vergine” – prevalentemente agricolo – viene colonizzato da parte di nuovi abitanti, i pionieri di quel luogo. Questo accade loro malgrado, sulla base di logiche che sono al di fuori della loro volontà legate alle scelte urbanistiche di sviluppo dei nuovi quartieri pubblici.
Lo sviluppo della città ed il sistema edilizio si impossessano di nuovi territori e tra gli anni Cinquanta e i primi Settanta si insediano i nuovi abitanti a Mirafiori. Vengono costruiti grandi complessi di edilizia pubblica dove sono trasferite le famiglie assegnatarie da bando pubblico, talvolta in maniera forzosa, come nel caso di via Artom.

Costruzione dell’identità

I decenni Settanta e Ottanta li vedo come quelli della Costruzione dell’identità del quartiere. Dopo l’arrivo dei pionieri, con la crescita della popolazione (nel 1971 la popolazione di Torino toccò il suo apice), la densità edilizia crebbe in maniera esponenziale. Sono gli anni in cui le persone che abitavano Mirafiori cominciarono a domandarsi: “dove abitiamo? in che tipo di quartiere viviamo? cosa ci manca? cosa vogliamo?” e in cui fiorisce l’attivismo dei cittadini e si rafforzano le comunità di quartiere in tutta la città, si costruiscono nuove modalità di relazione tra il territorio e l’amministrazione comunale. Nel 1975 diventa sindaco Diego Novelli che imposta nuove forme  di relazione con i territori locali, come i comitati di quartiere che a Mirafiori proliferano. L’attività dei comitati si traduce soprattutto in termini di richiesta di servizi di base che nei nuovi quartieri periferici erano quasi totalmente assenti (ad es. strade, illuminazione, servizi). Sono stati i decenni in cui il territorio ha costruito una sua propria identità. Gli abitanti del tempo cercavano di costruire il loro luogo dell’abitare e farlo diventare tale, trasformandolo dalla sua condizione di periferia abbandonata in una parte di città a tutti gli effetti. In questo contesto, l’attivismo locale, era strettamente legato alla dimensione della fabbrica, laddove la dimensione dell’organizzazione sindacale in fabbrica si trasferiva sul territorio. I comitati di quartiere erano spesso guidati dagli stessi protagonisti che organizzavano il movimento sindacale in fabbrica. C’era era proprio una forma strutturata attraverso la quale gli abitanti si raggruppavano, si confrontavano, confliggevano, con dinamiche di relazione di quartiere anche molto forti. Sono gli anni in cui Mirafiori guadagna lo stigma di quartiere pericoloso, per fatti gravi di cronaca nera e per una generalizzata situazione di degrado fisico e sociale che caratterizzava la zona.

Reinvenzione

Il terzo concetto lo associo alla parola Reinvenzione, o rigenerazione. Passato il “reflusso” degli anni Ottanta, nei primi anni Novanta prendono avvio numerosi programmi di recupero urbano finalizzati ad un ripensamento delle periferie urbane attraverso il recupero della memoria ed il coinvolgimento degli abitanti. L’idea è quella di reinventarsi come quartiere, ovvero di capire che cosa può nascere di nuovo a fronte di un mondo che è cambiato, di una città che è cambiata, di una popolazione che nel quartiere è cambiata radicalmente a seguito di un forte ricambio generazionale. I bambini degli anni Ottanta sono cresciuti e si sono trasferiti, chi è rimasto si è dovuto reinventare (pensiamo agli anziani ormai rimasti soli). Qui entrano in gioco le dimensioni del recupero urbano prima e della fondazione di comunità dopo, quindi dell’inventarsi progetti, idee, anche con gli abitanti che vanno nella direzione di capire quale sia il presente e quale sarà il futuro del quartiere.

A queste dinamiche si può associare l’idea di svuotamento, che riconduce ad una dimensione fisica come la caraffa che si svuota ed alla scala urbana rende l’idea del quartiere come un contenitore di abitanti, di persone. Questo svuotamento c’è stato in linea con l’invecchiamento della popolazione. Quelli che erano bambini oggi se ne sono andati, gli alloggi sono grandi ma con poche persone dentro, gli spazi pubblici sono ampi, ma con poche persone che vi circolano e li sfruttano, le scuole sono semi-vuote. In questo senso l’idea dello svuotamento rende l’idea delle dinamiche in maniera efficace.

 

FILIPPO DE PIERI  Devo fare due premesse: la prima è che la domanda che avete formulato, dicendoa partire dagli anni ‘50, ci interroga su un cambiamento che copre quasi l’intera storia del quartiere. Mirafiori non nasce certo negli anni ‘50, però il grosso del suo sviluppo edilizio e abitativo prende forma dagli anni ‘50 in poi. Un periodo di tempo così lungo copre tanto la costruzione di buona parte del quartiere dal punto di vista abitativo, quanto le successive trasformazioni di questo stock. La seconda premessa è che la domanda posta riguarda l’abitare, ma lo sfondo che non si può non tenere presente è il processo di industrializzazione prima, di de-industrializzazione poi, che tocca sia la città sia il quartiere.

Propongo tre parole chiave che mi sembra possano cogliere alcuni aspetti del cambiamento che hanno caratterizzato soprattutto gli ultimi decenni, se non per tutto il quartiere almeno per diverse sue parti:

Stabilizzazione

Il quartiere si è costruito in parte in coincidenza con le grandi ondate migratorie da varie regioni italiane che hanno toccato Torino negli anni del boom e della crescita. Questa popolazione all’inizio molto mobile si è poi progressivamente stabilizzata. Questo non riguarda certo tutti – e noi tendiamo, per una forse inevitabile distorsione prospettica, ad avere più memoria di quelli che sono rimasti che di quelli che se ne sono andati – ma è sicuramente avvenuto in molti casi. La stabilizzazione è avvenuta anche attraverso processi che passavano dall’abitare, in primo luogo le politiche di accesso agevolato alla proprietà della casa, sostenute dallo Stato come dalla grande impresa, che sono state così importanti nel processo di costruzione della città del secondo dopoguerra. Molte persone, arrivando a Mirafiori, hanno portato con sé o elaborato nel tempo un progetto di vita basato su una stabilizzazione residenziale.

Invecchiamento

Alcune parti di Mirafiori hanno oggi indici di vecchiaia molto alti, sono parti di città abitate spesso da persone della prima generazione di immigrati a Mirafiori “che sono rimaste”. L’invecchiamento tocca da vicino il tema della residenza e dell’abitare, perché implica un cambiamento dei modi di stare dentro la casa: appartamenti ampi, inizialmente abitati magari da una famiglia nucleare con un certo numero di figli, sono oggi abitati da una-due persone. Questo pone la questione, che mi sembra al tempo stesso interessante e urgente, delle traiettorie di utilizzo del patrimonio abitativo costruito tra gli anni ‘50 e ‘80. Il cambiamento riguarda anche l’uso dei servizi e delle attrezzature urbane – le stesse parti di Mirafiori ad alto indice di invecchiamento sono oggi tra le zone della città in cui vi sono più edifici scolastici. Attrezzature che nelle prime fasi dell’urbanizzazione del quartiere erano carenti ma in un secondo momento sono poi arrivate in misura piuttosto rilevante. L’inseguimento continuo tra cambiamenti demografici e assetti spaziali della città è ancora oggi una delle questioni aperte nel quartiere ed una delle leve possibili per la progettazione.

Rapporto tra città pubblica/città privata

A Mirafiori alcune parti del tessuto residenziale sono state costruite attraverso l’intervento pubblico, altre attraverso l’iniziativa privata, ma la distinzione oggi appare meno netta che in passato. Una delle ragioni dell’indebolirsi di questa distinzione sta nel cambiamento che ha toccato quelle parti del quartiere (sono molte) che furono costruite con interventi di edilizia agevolata, per esempio attraverso cooperative a proprietà divisa. Inizialmente considerate come aree di intervento pubblico, questi interventi si sono trasformati nel tempo, con il riscatto degli alloggi da parte degli abitanti, in una città privata costruita secondo procedure diverse da quelle del libero mercato ma spesso non sostanzialmente differente nelle sue forme. Una città di condomìni. Se consideriamo anche le alienazioni di parti di housing pubblico che sono avvenute nel tempo possiamo concludere che l’estensione della “città pubblica” a Mirafiori (come l’ha chiamata Paola Di Biagi) è oggi molto più ridotta rispetto a quella di qualche decennio fa. Ovviamente la diversa matrice genetica di questi tessuti urbani non è irrilevante e ha lasciato un segno sulle esperienze di vita degli abitanti, sulla loro percezione del quartiere. Tuttavia molte differenze che ancora negli anni ottanta-novanta risultavano molto percepibili si sono progressivamente attenuate e le questioni urbane che questi quartieri presentano, e che la politica è chiamata ad affrontare, appaiono oggi largamente confrontabili. Questo non significa che nel quartiere non esistano importanti divisioni legate alle forme dell’abitare ma queste probabilmente tendono a ricomporsi secondo linee di frattura diverse da quelle del passato e meno immediatamente leggibili nelle forme dell’architettura del quartiere.

2. Quali sono le potenzialità urbanistiche e architettoniche che vedi oggi per uno sviluppo futuro del quartiere?

 

FEDERICO GUIATI  Le potenzialità urbanistiche e architettoniche, in questo momento, non posso che vederle alla luce del Covid. Questo ultimo anno ha rimesso in discussione tutta una serie di punti di riferimento che avevamo rispetto all’abitare ed ai servizi urbani. Mi rifaccio ad un tema che è recentemente entrato nel dibattito pubblico, la “città da 15 minuti”. Stante l’esigenza della città di essere resiliente rispetto a pandemie o situazioni emergenziali è un modello urbano che prevede, in estrema sintesi, che entro un raggio di 15 minuti a piedi siano disponibili tutti i servizi fondamentali oltre ad adeguati spazi verdi aperti. Oggi si ragiona, soprattutto nelle grandi metropoli europee, su come rivedere i requisiti urbanistici delle città per rispondere a possibili dinamiche emergenziali. Mirafiori da questo punto di vista è un quartiere modello, in quanto risponde a tutta una serie di criteri e dispone anche di una serie di spazi potenziali per servizi che si prestano bene per affrontare il problema. Ovviamente non basta avere l’edificio per risolvere il problema, il quale deve poi vedere l’insediamento di servizi adeguati. Mirafiori già oggi garantisce standard di verde e di dimensione media degli alloggi superiori rispetto a quelli che possiamo trovare nel resto della città, a cui però si affianca un generalizzato una bassa qualità edilizia, caratterizzata da edifici in prefabbricazione pesante. Sussistono quindi ampi spazi di intervento rispetto all’efficientamento energetico anche se da un punto di vista economico è necessario interrogarsi su come questa opportunità possa essere attuabile in un contesto dove i redditi sono bassi e le proprietà spesso miste (pubblico-privato). Mirafiori ha comunque le caratteristiche per essere un modello contemporaneo di sperimentazione e di sviluppo di nuove modalità di abitare un quartiere, la città, di strutturare e di proporre l’offerta di servizi.

 

FILIPPO DE PIERI Come sapete il mio punto di vista è quello di uno storico dell’architettura e delle città e rispetto a questa domanda mi sembra importante dire che c’è uno strumento di intervento potente che tendiamo ancora a sottovalutare, ovvero l’intervento sulle narrazioni del passato. Luoghi come Mirafiori hanno molto bisogno di progetti raffinati e incisivi che sappiano lavorare sulle storie pubbliche e sulla capacità di raccontare storie dei luoghi che rinnovino la comprensione tanto di quello che è successo quanto di quello che potrebbe accadere. Basta pensare agli stereotipi con cui quartieri come Mirafiori entrano oggi nei dibattiti pubblici: ipersemplificazioni molto condivise e che risultano difficili da sradicare se non si lavora a fondo sulla costruzione di rappresentazioni diverse. Queste storie non devono ovviamente essere delle invenzioni, devono essere serie, ben documentate, radicate nel quartiere e pertinenti rispetto a quello che effettivamente è accaduto nei luoghi. Abbiamo visto abbastanza storytelling e marketing urbano per capire i danni devastanti che un approccio superficiale alle narrazioni urbane può provocare. Non si tratta quindi di inventarsi qualcosa di nuovo così, tanto per fare, ma di saper porre nuove domande al passato, mostrare degli elementi della storia di un quartiere che magari non siamo stati così bravi a vedere fino ad adesso, o che possiamo vedere meglio perché le prospettive sono cambiate. Questo mi sembra un campo di intervento decisivo per aprire uno sfondo di azione, per lasciar intravedere delle direzioni possibili di trasformazione.

Sul piano della trasformazione architettonica e urbanistica Mirafiori ha un potenziale legato a una certa generosità spaziale che appartiene alla costruzione della città del secondo dopoguerra e che può rappresentare un punto di appoggio per politiche di rigenerazione spaziale, per esempio legate agli spazi e alle attrezzature collettive o al modo in cui si possono rinegoziare i confini tra spazi pubblici, privati, co-gestiti… Qui forse vorrei soprattutto ricollegarmi alla domanda precedente e dire che le trasformazioni del patrimonio residenziale del quartiere che abbiamo discusso chiamano anche una strategia possibile di interventi micro, che se si moltiplicano e diventano diffusi possono avere un effetto d’insieme e rivelarsi la chiave per innescare delle trasformazioni macro. Quel processo di svuotamento o di cambiamento degli usi sociali degli edifici residenziali che abbiamo discusso è un processo quasi invisibile quando si va nel quartiere: gli edifici sono tutti lì, a volte sembra di passeggiare nella città degli anni 80, e tuttavia ci sono molti cambiamenti che sono avvenuti all’interno delle case e che non si percepiscono fino a che uno non entra dentro. Di qui l’importanza di pensare a strategie che investano il patrimonio residenziale a questa scala – che è quella della singola unità residenziale o del singolo alloggio, oppure degli spazi comuni sottoutilizzati degli edifici multipiano. Scala complessa da affrontare perché parliamo di un paesaggio molto frammentato dal punto di vista delle proprietà e in cui generalmente è molto difficile arrivare a delle decisioni condivise. Per fare questo servono strategie e strumenti di azione che vadano molto al di là della semplice riqualificazione energetica e che non sono facili da pensare, ma che sono uno dei possibili punti su cui Mirafiori potrebbe servire da terreno di sperimentazione per un intervento pilota.
Chiudo con una domanda che sta dietro a queste mie considerazioni e che mi sembra cruciale, ovvero: “per chi?”. In un quartiere che in alcune sue parti si sta svuotando, dove noi osserviamo una forte persistenza e radicamento di una popolazione per cui Mirafiori ha rappresentato veramente lo scenario di una vita, ma anche alcune tracce e possibilità di cambiamento sociale come spaziale, su quali popolazioni possono o devono oggi scommettere le politiche urbane? La domanda vale per i progetti architettonici come per le narrazioni storiche, ma forse sono proprio queste ultime che ne raccontano le implicazioni in modo più efficace. Quando raccontiamo il passato di un quartiere, dobbiamo parlare prevalentemente agli abitanti che già ci sono, vedendo come un valore positivo il loro radicamento identitario – per esempio il loro attaccamento a un passato legato alla fabbrica – e scommettendo su questo radicamento come un possibile fattore positivo di trasformazione, oppure dobbiamo essere molto attenti a costruire narrazioni che siano aperte, inclusive e accoglienti anche nei confronti di abitanti che non condividono questo passato – magari sono abitanti che non ci sono ancora – e che possono trovare altre strade per costruire dei percorsi di auto-riconoscimento dentro determinati luoghi? Le politiche della memoria possono essere strumenti potenti di inclusione ma anche (e talvolta simultaneamente) di esclusione, e lo stesso si può dire delle architetture.»

 

FEDERICO GUIATI La domanda “per chi?” diventa l’elemento chiave, io provo ad immaginarmi chi possano essere i nuovi abitanti del quartiere. Tra gli abitanti storici che venivano citati prima e quelli nuovi, aggiungerei forse gli operatori economici, il quartiere deve diventare attrattivo non solo per le persone ma, per creare una dimensione urbana dinamica e funzionale alle esigenze delle persone, anche per gli operatori economici: imprese che offrano lavoro e riattivino l’economia di quartiere, il commercio e tutti gli elementi di economia locale che contribuiscono a migliorare la qualità della vita, dell’abitare. In quello svuotamento a cui si faceva riferimento prima sicuramente oltre alla grande fabbrica che si è svuotata, si sono svuotati anche tantissimi altri spazi del lavoro, orfani della loro vocazione originale.

 

FILIPPO DE PIERI Aggiungo una considerazione forse ovvia ma necessaria, ovvero che uno dei punti nodali da cui passerà il futuro di questi luoghi, tanto dal punto di vista delle narrazioni quanto da quello delle trasformazioni, sarà la memoria della fabbrica. In passato a Mirafiori la fabbrica è stata, se non tutto, comunque molto, mentre oggi questo legame si è molto allentato. Cosa dobbiamo fare? Qual è il modo più opportuno, interessante, ricco di elaborare oggi una memoria del passato industriale? Dovremo forse puntare a dimenticarci un po’ di più la fabbrica per favorire l’emergere di processi di cambiamento? Oppure esiste un modo di continuare a scavare nella storia e nella memoria del passato industriale traendo da lì le risorse materiali e intellettuali che ci portino a nuovi modi di rivedere gli stessi luoghi? È difficile dire adesso se tra venti o trent’anni ci troveremo a concludere che il passato industriale di Mirafiori ha rappresentato un’ipoteca o non piuttosto una risorsa per permettere al quartiere di trovare una nuova identità nel XXI secolo.

 

FEDERICO GUIATI Condivido, la dicotomia ipoteca/risorsa. In questo, sempre per rispondere alla seconda domanda, quali sono le potenzialità… la fabbrica, oltre ad essere luogo di memoria storica del quartiere, oggi si presenta anche come lo spazio che a livello urbanistico ha più potenzialità per tutto il territorio, nel senso che è un’ enorme area industriale da reinventare completamente, guardando le mappe di Torino la fabbrica è un grande buco nero della dimensione di un quartiere, dove attualmente il processo di svuotamento è quasi concluso e con difficoltà si sta cercando di reinventarlo seguendo, ritengo, un filone di pensiero obsoleto. Si cerca di riempire di nuovo gli spazi industriali con nuove attività industriali, spesso sovvenzionate, per mantenere in vita una vocazione che forse, mi domando, ce l’ha ancora veramente?
Probabilmente una reinvenzione di tutto il quartiere passa da un ripensamento di quegli spazi attualmente vuoti, delle opportunità che possono avere di apertura del quartiere stesso, verso il resto della città nell’offerta di nuovi servizi, di nuove opportunità.

3. Esiste un’altra periferia che assoceresti a Mirafiori e perché?

 

FILIPPO DE PIERI Preferirei non usare la parola periferia per parlare di Mirafiori, perché è un termine che rientra in quella semplificazione del dibattito pubblico sui quartieri da cui dobbiamo cercare di allontanarci. Non che oggi a Mirafiori non esistano fenomeni di marginalità – ce ne sono eccome – ma esistono anche fenomeni di segno opposto ed è necessario usare termini che non coprano la complessità delle geografie e permettano di cogliere in modo più fine la direzione, talvolta contraddittoria, dei cambiamenti. Oltre a questo, trovo davvero difficile usare un termine come periferia per luoghi che hanno rappresentato il centro della vita e delle esperienze urbane di decine di migliaia di persone distribuite su più generazioni: osservato da questo punto di vista Mirafiori oggi ci appare come uno dei cuori della città del ‘900, non certo un margine.

Se si prova a confrontare Mirafiori con i quartieri di altre città italiane, grandi ma anche piccole e medie, bisogna affrontare un paradosso. Da un certo punto di vista è un quartiere che ha una storia veramente unica, non esistono molti altri luoghi in Italia che si sono costruiti intorno uno stabilimento di queste dimensioni e questa importanza simbolica – del resto non esistono in Italia molti altri luoghi di produzione paragonabili a Mirafiori. Al tempo stesso è un pezzo di città che per certi aspetti è banale, se per un attimo noi potessimo fingere che la fabbrica non esista, quello che troveremmo è un quartiere del secondo ‘900 che non si distingue poi molto da altri quartieri dello stesso periodo, a Torino e altrove. Oggi le questioni urbane che i quartieri di questa generazione presentano hanno degli indubbi elementi di somiglianza, nonostante l’evidente peso delle storie specifiche. Per quanto importante sia lo stabilimento – e non ho intenzione di sminuire questa importanza – non tutta la storia di Mirafiori è radicata nel quartiere o presenta degli elementi di specificità così forti da doverla considerare in associazione stretta con un territorio, stiamo piuttosto raccontando il modo in cui alcuni processi riconoscibili di costruzione delle città italiane del secondo dopoguerra hanno prodotto luoghi, diffuso modelli insediativi, costruito o decostruito identità, contribuito a organizzare gruppi sociali nello spazio e a definire forme dell’abitare.

 

FEDERICO GUIATI A uno sguardo un po’ più alto, a volo d’uccello, associo Mirafiori a qualsiasi altra periferia industriale delle grandi città italiane (come Milano, Genova) laddove le dinamiche di crescita urbana legate allo sviluppo industriale e all’immigrazione interna, così come le risposte in termini abitativi sono spesso sovrapponibili tra i vari contesti. Luoghi lontani dal centro, terreni che costavano poco, grande prevalenza di edilizia pubblica. In questo senso condivido l’idea che Mirafiori quartiere sia “banale” e non si differenzia molto da altre periferie. Dall’altro lato ritengo che costituisca un unicum per il fatto di essere il quartiere nato ai margini della grande fabbrica della Fiat. Questo semplice aspetto ci permette oggi di analizzare con un occhio differente le dinamiche dell’abitare di un luogo che vive della “luce riflessa” dallo stabilimento. L’attenzione di cui gode oggi Mirafiori è frutto del lavoro di costruzione di una narrazione che prende avvio nei primi anni Novanta e che ha permesso al territorio di essere oggetto di un grosso dibattito e di un approfondito lavoro di analisi e di riflessione.

 

FILIPPO DE PIERI Aggiungerei che questa discussione sulla comparazione porta in primo piano questioni rilevanti per cercare di capire di che tipo di quartiere stiamo parlando. Un primo modo per costruire comparazioni a partire da Mirafiori è considerarlo come un esempio importante di quartiere industriale del ‘900, caratterizzato da un determinato rapporto tra sviluppo spaziale e sviluppo produttivo. Se partiamo da questo presupposto ha senso cercare comparazioni con altre grandi città industriali del XX secolo, a partire da Detroit o da casi studio europei più simili a Torino nelle loro geografie sociali. Tuttavia si possono condurre confronti anche su aspetti più specifici, isolando alcuni tratti di questa storia che chiamano in causa reti e connessioni di tipo diverso. Operazioni del genere sono giustificate dal fatto che luoghi come Mirafiori si sono costruiti su storie a diverse velocità e che agivano su scale e geografie differenti – la storia dello stabilimento può richiamare per esempio un certo tipo di diffusione internazionale dei modelli di razionalizzazione della produzione, ma la storia di un condominio di via Guido Reni costruito in cooperativa può evocare un diverso tipo di sguardo comparativo, per esempio centrato sulla diffusione e la trasformazione di determinate tipologie insediative in città che non sono necessariamente cresciute intorno all’industria. Ovviamente c’è un collegamento tra tutte queste storie intrecciate di Mirafiori, ma non sempre è utile metterlo al centro della scena. A seconda quindi degli elementi e dei processi che consideriamo, si possono chiamare in causa comparazioni di tipo diverso. Un esercizio di questo genere è utile anche per mettere in discussione l’unità del quartiere e i suoi stessi confini, che possono cambiare anche molto a seconda delle lenti con cui lo osserviamo.

4. Se dovessi raccontare Mirafiori a qualcuno che non la conosce che film (o libro) consiglieresti?

 

FEDERICO GUIATI  Film: La ragazza di via Millelire, di Gianni Serra, 1980, girato a Mirafiori Sud, che offre uno spaccato molto crudo della società ai margini dell’epoca. Ostracizzato dalle istituzioni e dalla critica, ritengo che però rappresenti un interessante fotografia del quartiere in quegli anni.

Cito inoltre il film Mirafiori Lunapark di Stefano Di Polito che racconta in maniera onirica il quartiere negli anni Duemila dal punto di vista di tre ex operai pensionati che occupano gli spazi vuoti della fabbrica per realizzare un luna park.

Libro: Gad Lerner, Operai, nella versione aggiornata con commenti e introduzioni, che offre una visione degli operai nella loro dimensione di vita, non soltanto nella dimensione della fabbrica, che in parte è stato basato su interviste a operai di Mirafiori e in parte con interventi legati ad altri contesti che però sono riconducibili al modello città fabbrica-città operaia.

 

FILIPPO DE PIERI Fino ad anni abbastanza recenti la letteratura scientifica su Mirafiori era letteralmente dominata dagli studi – politici, sociologici, storici, ecc. – sulla fabbrica, una documentazione vastissima all’interno della quale mi limiterei a segnalare due lavori della fine degli anni novanta – Mirafiori, a cura di Carlo Olmo, sulla storia architettonica e urbana del complesso e Mirafiori, di Giuseppe Berta, sulla sua storia economica e industriale – che si prestano a essere letti in modo complementare e offrono ancora oggi dei punti di riferimento molto solidi. Oggi è importante portare avanti gli studi sul quartiere – un punto su cui sia i lavori di Federico sia questa ricerca danno un contributo importante – cercando di promuovere non una prospettiva di storia locale, ma una modalità di lavoro che sappia associare alcune delle esperienze più avanzate che si stanno compiendo nell’ambito della ricerca universitaria con una dimensione di storia pubblica. Costruire cioè storie che sappiano parlare tanto agli abitanti quanto a una comunità scientifica internazionale che è molto attiva nella ricerca su questi temi.
Anche le rappresentazioni televisive e cinematografiche di Mirafiori sono dominate dallo stabilimento, forse più ancora delle ricerche universitarie e delle inchieste. Un titolo che consiglierei è Le mani svelte. Giovani, donne, fabbrica di Gianni Amico, un documentario del 1981 realizzato da un cineasta italiano di notevole spessore che osserva le operaie e gli operai, dentro e fuori dallo stabilimento, in un periodo difficile, poco dopo la marcia dei quarantamila, facendo emergere una pluralità di differenze di genere e di generazione nel rapporto con il lavoro di fabbrica. Il film merita per questo ma anche per il modo in cui racconta visivamente la città industriale – le fabbriche, le case, gli interni degli spazi domestici e di lavoro – con una capacità di trasfigurazione formale che a volte rasenta la reinvenzione in modo abbastanza stupefacente. Guardate per esempio la simmetria quasi rinascimentale di questa inquadratura

Stiamo svolgendo questa intervista in piena pandemia, in un periodo in cui tanto il settore della musica quanto quello del teatro hanno incontrato gravi difficoltà, mi piace allora chiudere con un suggerimento musicale e uno teatrale. Sono due storie di vita, non propriamente ordinarie, che riguardano quasi lo stesso luogo, vissuto a pochi anni di distanza secondo prospettive opposte.

La prima storia è quella di Rita Pavone, che è stata una cittadina di Torino e, per qualche anno, di Mirafiori. Rita nasce e cresce in Borgo San Paolo, da una famiglia di immigrati – il padre, siciliano, lavora nello stabilimento di Mirafiori – e nel 1959, quando lei ha quindici anni, la famiglia si trasferisce nelle case Fiat di via Chiala, che sono state appena terminate. Questo è anche il periodo in cui Rita compie diversi tentativi per entrare nel mondo della musica, fino a che nel 1962 viene chiamata a Roma per partecipare a una competizione canora che vince, incidendo il suo primo singolo, che sarà La partita di pallone. Nelle biografie di Rita ci sono questi episodi un po’ leggendari, uno dei quali riguarderebbe una lite familiare decisiva per il suo futuro, lei dovrebbe andare a Roma per partecipare a questa gara ma i soldi per il treno non ci sono, e alla fine vengono trovati rinunciando all’acquisto del primo frigorifero della famiglia, per il quale la madre – contraria alla sua carriera musicale – aveva così duramente risparmiato. Castelvecchi ha da poco pubblicato una Storia sociale di Rita Pavone scritta da Alberto Gagliardo (2020) che discute alcuni di questi aspetti, a me la storia di Rita interessa tra l’altro perché offre un taglio visuale in cui alcune delle cose importanti che riguardano il quartiere si svolgono fuori dal quartiere, il quartiere è un punto di passaggio, un luogo in cui si arriva e da cui si riparte, capace di accogliere persone che vengono da tutta Italia e poi di restituire al Paese, in cambio, qualcos’altro.

La seconda storia rimanda a uno spettacolo teatrale, “Anagramma via Artom”, creato e interpretato all’inizio degli anni 2000 da Gianni Stoppelli. Stoppelli, che abitava nelle case popolari del quartiere 167 di via Artom, è stato incarcerato a 15 anni, all’inizio degli anni ottanta, per un omicidio a scopo di rapina e ha scritto questo spettacolo dopo aver scontato la pena. Il testo racconta la sua storia personale intrecciandola con quella del quartiere e restituisce in modo potente e disturbante – e ovviamente anche potenzialmente controverso – gli anni dell’arrivo della droga nei quartieri di Torino e il periodo cui via Artom evocava in un immaginario diffuso quello di un ghetto di marginalità in cui tutto poteva succedere. Non ho visto personalmente lo spettacolo ma ne esiste in rete una registrazione radiofonica che oggi è possibile ascoltare, quasi come se fosse un podcast (https://archive.org/details/Anagramma.via.artom).

Filippo De Pieri è professore associato di Storia dell’architettura presso il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino. Si occupa di storia urbana di età contemporanea, storie dell’abitare, e degli incroci tra storie “scientifiche” e storie pubbliche dell’architettura. Ha curato tra l’altro i volumi Storie di case. Abitare l’Italia del boom (Roma 2013), Esplorazioni nella città dei ceti medi: Torino 1945-80 (Siracusa 2015), Beijing Danwei: Industrial Heritage in the Contemporary City” (Berlin 2015) e Porter le temps. Mémoires urbaines d’un site horloger (Genève 2021)
Federico Guiati Architetto, PhD in Pianificazione Territoriale e Sviluppo Locale, appassionato della città, dei suoi abitanti e dei fatti che li legano. Svolge da sempre attività professionale e didattica sui temi della rigenerazione urbana, delle trasformazioni, della dimensione sociale del progetto, della storia locale e della sociologia urbana. È autore di numerosi testi sul tema della rigenerazione urbana, dell’azione locale, dell’accompagnamento sociale nonché sulla storia dei quartieri di Mirafiori sud e Mirafiori nord.

Indizi di vita a Mirafiori

Un viaggio alla ricerca del noi nell’ex quartiere operaio

 

17 Maggio 2021 / Fabrizio Floris

Mirafiori al mattino si alza, ma non si sveglia. Il sonno l’accompagna durante tutti i minuti e le ore che segnano l’arco della giornata. Alla sera non sa che cosa ha fatto, non sa il senso che ha avuto il tempo passato e non sa che cosa, perché. Mirafiori è seduta, respira, inspira, respira: non sorride, non piange, non odia. È il dramma di una periferia dove l’autonomia è andata verso l’autosufficienza, verso categorie sociali che non sono più classi, ma universi paralleli. Si va da soli incontro al destino che è solo indicativo, è solo presente. Infatti, Mirafiori non è solo una sommatoria di mancanze: di infrastrutture, servizi, degrado architettonico, bassa scolarità, micro-criminalità, ma è espressione di un luogo in cui non si è protagonisti della propria vita: lasciare che le cose vadano come devono andare, senza sentirsi responsabili di alcunché.

Si vive come sudditi credendo di essere cittadini perché ci si muove in modo rigorosamente individuale. Si è perso quello che potremmo chiamare presentimento: il rumore delle cose lontane. Non c’è più alcuna intimità con il luogo di origine e non c’è fiducia nelle promesse future e men che meno con il proprio vicino.

Mirafiori è una moltitudine di solitudini. La vedi camminare solitaria, il più delle volte accompagnata dal cane e non capisci più se è l’animale che porta la persona fuori o viceversa, escono solo per respirare un po’ di nanopolveri e rimettere in equilibrio i polmoni con quelli del resto della città. Mirafiori è una massa che non si incontra, al massimo sta in fila compassionevole. Il movimento collettivo dei circoli, dei dibattiti, dei partiti, dei sindacati, dei “fiduciari di scala” e dei cortili si è sempre più frammentato fino a diventare unità singolare: un monachesimo non scelto, ma costituito di lontananza più che di ricerca.

Uomini e donne che facevano parte di un flusso che si muoveva lungo un unico binario: casa-fabbrica, fabbrica-casa, costituito da movimenti ripetuti, che nel tempo si erano fatti istintivi. Eppure questo stare fianco a fianco per ore, anni, nello stesso luogo di lavoro, nello stesso quartiere, negli stessi problemi, aveva portato a sortire risposte comuni a problemi collettivi, era la politica che a tratti si scopriva comunità: una massa arretrata, ignorante, ingenuamente fiduciosa, ma non indifferente.

Ogni storia era un romanzo inedito di personaggi in cerca d’autore. Tutto appariva chiaro e distinguibile, lineare: destra/sinistra, lavoro/disoccupazione, integrato/escluso, giorno/notte era la modernità solida; adesso lavori, ma sei ai margini, non lavori e hai un reddito, un anno voti e l’altro lasci scheda bianca, non c’è contrapposizione identitaria ma una sommatoria che rende tutto indistinguibile (liquido). Anche il tempo si è fatto indistinto: è sfumata la separazione tra tempo lavoro e tempo libero ed è in atto l’assalto alla frontiera del sonno, l’ultimo competitor degli strateghi hi-tech, e così anche la notte è giorno. Mirafiori è diventata una periferia esistenziale, i cortili si sono svuotati, gli anziani sono rimasti soli, e la vita ha perso la sua dimensione collettiva e comunitaria per ripiegarsi nell’autosufficienza dell’Io e nel fingere di essere middleclass, ma è stata un’illusione.

 

 

Mario parla del passato, quando tutto appariva chiaro e distinguibile, lineare: destra/sinistra, lavoro/disoccupazione, integrato/escluso. «Adesso lavori, come quelli delle biciclette (rider), ma stai peggio di chi non lavora e ha il reddito di cittadinanza»: una sommatoria che rende tutto indistinguibile (liquido). «A volte mi metto a passeggiare lungo il muro, costeggio tutta la Fiat (per me si chiama sempre così, mi ricorda la busta paga). Quando arrivo alla fine di via Abarth e poi lungo corso Settembrini osservo il vuoto che c’è nello stabilimento penso agli striscioni, alle lotte, agli operai che nel ‘40 stavano sotto i bombardamenti. Non ho nostalgia, ma penso che lottavano per il lavoro, per i diritti, adesso lotti per diventare precario». Da quando è iniziato il cosiddetto processo di terziarizzazione si sono ridotti sensibilmente i posti di lavoro e, come spiega l’economista Zangola, «oggi, più che in passato, l’offerta di lavoro è, in larga parte, poco qualificata, con problemi di sovra-istruzione, instabile per non dire precaria e non adeguatamente retribuita».

 

La zona rossa ha svelato ancor più le fragilità degli amici del bar: non possono più far finta di andare a lavorare, di uscire a fare “commissioni”, di avere impegni. Non protestano, non fanno “a botte”, non gridano, perché si sentono responsabili della loro condizione. Non sono attratti dai mediocri populismi locali, andranno avanti da soli, ma senza di loro Mirafiori sta perdendo qualcosa. Un aggregato di persone diventa quartiere se c’è qualcuno che ti chiama compagno o fratello: se c’è qualcuno che interrompe il dolore che altrimenti perdura, senza tregua. Ma che un solo abbraccio può trasformare in bellezza.

 

Per questo Mirafiori è un insieme che non costituisce un’unità: un concetto sui generis. Ai problemi hanno fatto seguito soluzioni rigorosamente individuali perché ogni problema è percepito solo come proprio: è solo tuo (anche se è uguale a mille altri). Si è avverata qui la profezia di Margaret Thatcher: «La società non esiste. Esistono solo gli individui». Un ripiegamento su di sé che è diventato regressione, ricerca di surrogati che potessero compensare le relazioni e i sogni perduti. Poi sono arrivati l’invecchiamento, i cortili vuoti, il covid che come una tempesta perfetta hanno fiaccato anche quei deboli bagliori trasformando la solitudine in povertà. Come scrive Maurizio Maggiani: «I poveri sono quelli che non sanno darsi un destino». Adesso c’è meno vita, ci sono più vecchiaia e solitudine e le porte sono confini che separano i sommersi dai salvati. La chiusura della biblioteca, della piscina e di molti servizi pubblici insieme all’apertura dell’inceneritore ha indebolito la coesione e la capacità di agire collettivo. Poi è arrivato pure il covid-19. I giardinetti sono diventati inconsuetamente vuoti, la gente nelle silenziose ore serali ha iniziato a cantare insieme “ce la faremo”, “azzurro”, “il cielo è sempre più blu”. 150 persone sono diventate volontarie per la distribuzione del cibo alle famiglie in difficoltà, qualcuno ha discretamente messo mano al portafoglio per aiutare chi faceva più fatica, i commercianti hanno legato ombrelli colorati sugli alberi, gli orti generali sono diventati luogo di coltivazione e aggregazione. Fiorellini deboli deboli che hanno permesso, come spiega Bruno Manghi, che il declino «non diventasse degrado, la storia è andata avanti a dispetto della storia». La Fondazione di Comunità e le parrocchie hanno messo in pista progetti per i giovani, gli anziani, il verde, un presidio Slow Food. Abbiamo, come racconta Davide Teta, «iniziato a muoverci come squali, non siamo pericolosi, solo che per sopravvivere dobbiamo, come gli squali, muoverci velocemente, andare fluidi e mutare rotta, se necessario, non possiamo stare fermi, altrimenti come gli squali moriamo». Da qui si prova compassione per quei cronisti che devono esercitare il loro mestiere in sonnolenti quartieri dai nomi altisonanti, perché a Mirafiori ogni giorno c’è una storia da raccontare e la realtà non finisce mai di sorprenderti. Per questo, quando cammino per le strade di Mirafiori sono pieno di soldi, l’aria è pulita, ho posti di lavoro da distribuire, la gente si informa sui giornali ed è parte attiva di una catena vitale che stringe mani che lavorano e, lavorando, trasformano la periferia in circolarità vitale. Non sono sogni, ma il nostro programma politico. L’oro si arrugginisce, la vita è alle spalle, e già ci precede quando siamo noi.

Fabrizio Floris Sociologo, laureato in Economia e Dottore di ricerca in Sociologia, ha insegnato Antropologia economica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino e Sociologia generale nelle Università di Milano e di Betlemme. Ha svolto attività di ricerca negli slums di Nairobi, nei campi per rifugiati del Kenya e nelle baraccopoli di Torino. È stato consulente per l’Area delle Politiche Sociali della Compagnia di San Paolo per progetti relativi all’integrazione di cittadini rifugiati, esclusione sociale e giovani. Dal 2014 si occupa all’interno di LAB.IN.S. della valutazione e dello sviluppo di progetti di innovazione sociale per rifugiati, minori e famiglie in condizioni abitative precarie.

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